L'epoca Bizantina.

Mauro Goretti

L'epoca Bizantina.

Zeloti a Salonico.

Rivoluzione è concetto per noi familiare, a indicar la distruzione o rovina di una società o forma politica invecchiata, e la sostituzione di una nuova. In questo caso, è concetto “plurivalente” e
moderno: non mai classico. Sono parole del grande storico dell'età romana Santo Mazzarino (1916-
1987), il quale sosteneva a ragione, che il mondo antico e quello medioevale non hanno mai conosciuto ideologie compiutamente “rivoluzionarie”. Ciò non significa che nel corso dell'antichità
e del medioevo non si siano verificate ribellioni o insurrezioni, ma solo che tali fenomeni sono stati
più il risultato di improvvisi e sporadici scoppi di violenza popolare che non il frutto di una precisa
e strutturata elaborazione ideologica.

Un evento rivoluzionario.

D'altra parte tutti gli storici antichi, “conservatori” o “progressisti” che fossero, identificarono concordemente le rivolte delle plebi oppresse con l'abbandono della sfera della legge a favore del
disordine dell'anarchia, e anche per gli stessi ribelli la rivolta poteva diventare un fatto positivo solo
in quanto consentiva il ritorno a un ordine antico ingiustamente turbato. A tale destino di condanna
globale non sfugge una delle più terribili insurrezioni che sconvolsero l'impero bizantino: la cosiddetta “rivolta degli zeloti” (ferventi), scoppiata a Tessalonica nel 1342.
È, tuttavia, questo evento “rivoluzionario” è stato spesso considerato diverso dalle esplosioni ribellistiche pre-moderne: esse sono infatti caratterizzate dalla completa assenza di basi teoriche, mentre la rivolta tessalonicese sarebbe stata invece dotata di un'organizzazione efficiente e di un
vero e proprio programma di riforme. Ma per comprendere meglio i caratteri del movimento in
questione, è necessario fare un passo indietro ed esaminare in breve la situazione dell'impero bizantino nel periodo immediatamente precedente alla rivolta.
Il 15 giugno del 1341 morì a Costantinopoli l'imperatore Andronico III Paleologo, lasciando come suo legittimo successore il figlio Giovanni V, di appena nove anni. Il “megas domestikos” Giovanni
Cantacuzeno comandante in capo delle forze militari terrestri, che aveva svolto importanti funzioni
di governo anche mentre Andronico III era in vita decise allora di rischiare il tutto per tutto e si
autoproclamò reggente dell'impero, motivando la cosa con il fatto di essere stato il migliore amico
del sovrano defunto. Contro di lui si venne però subito a formare una coalizione, che includeva
l'imperatrice madre Anna di Savoia, il patriarca costantinopolitano e l'ambizioso parvenu Alessio
Apocauco, antico seguace dello stesso “megas domestikos”.

L'arma della congiura.

Costoro, approfittando di una momentanea assenza di Cantacuzeno dalla capitale, lo dichiararono
nemico pubblico: la sua casa fu distrutta, i suoi beni saccheggiati, i suoi seguaci incarcerati; la reggenza venne assunta dal patriarca,e ad Apocauco la vera anima della congiura si affidò al governo della città di Costantinopoli. Cantacuzeno accettò la sfida e, il 26 ottobre del 1341, a
Didimoteico, in Tracia, si fece proclamare imperatore con il nome di Giovanni VI, pur dichiarandosi formalmente ancora fedele al piccolo Giovanni V. L'unico mezzo per dirimere la
controversia era la guerra civile, che d'altra parte, per un motivo o per l'atro, funestava l'impero
già dagli anni Venti del VIX secolo. Come scrive giustamente uno dei maggiori storici di Bisanzio,
Gerog Ostrogorsky, “la lotta tra la reggenza di Costantinopoli e il capo dell'aristocrazia, Cantacuzeno, portò alla luce del sole gli antagonismi sociali che covavano nell'impero”. In effetti,
nel cinflitto con Giovanni Vi, Alessio Apocauco cercò il sostegno delle masse popolari impoverite
e le incitò alla rivolta contro i sostenitori del suo avversario, che appartenevano in massima parte
al ceto aristocratico (hoi dynatoi, “i potenti”).

Bagliori di rivolta.

Si trattava di una materia infiammabile, perché la situazione sociale dell'impero alla metà del XIV
secolo era veramente delicata. In questo periodo vengono infatti al pettine tutti i nodi derivati dall'estrema gerarchizzazione della società bizantina e da quella che gli stessi imperatori definiscono come “insaziabile avidità dei potenti”, cioè la tendenza dei grandi proprietari terrieri a
sottrarsi al pagamento delle imposte dovute, a impadronirsi degli alti comandi militari e civili e a
inglobate i possedimenti dei piccoli contadini rovinati dall'eccessiva pressione fiscale.
La società tardo-bizantina a differenza di quella dei secoli precedenti, caratterizzata da forte metabolismo sociale e relativa mobilità delle élite assume forme rigidamente piramidali, chiuse in un impenetrabile sistema di “caste”. In una società così strutturata, lo spazio del povero nell'accezione classica di “colui che vive del proprio lavoro” è sempre più ristretto, anche perché la
tendenza alla tesaurizzazione ha ormai del tutto soppiantato quella verso un'economia di scambio
e di circolazione dei capitali. La congiura contro Giovanni Vi si trasformò dunque in una ribellione
di vaste proporzioni nei confronti dell'aristocrazia. Cantacuzeno, nelle sue memorie, afferma che i rivoltosi chiamati significativamente “zeloti” nel loro delirio di violenza e distruzione, definivano
“ogni forma di moderazione come” “cantacuzenismo”: in effetti i “leader” della rivolta identificavano in lui il capo della fazione aristocratica, e facevano dell'”anti cantacuzenismo” la
loro bandiera. I primi scontri divamparono ad Adrianopoli (l'odierna Edirne, nella porzione turca
della Tracia), dove i notabili locali furono massacrati, e ben presto, la rivolta si estese a tutta la Tracia.

Il governo degli “arconti”.

Ma il nucleo della sollevazione fu Tessalonica, la città bizantina più importante dopo Costantinopoli
in questo grande centro portuale, dove la più snodata ricchezza conviveva accanto alla più terribile
miseria, Giovanni Apocauco, figlio di Alessio, seppe incanalare il malcontento popolare nei confronti del governatore “cantacuzenista” Teodoro Sinadeno e dei suoi sostenitori aristocratici in
un vero e proprio colpo di Stato, che fu portato al termine grazie all'appoggio fondamentale dei
marinai della flotta e dei lavoratori del porto. All'inizio dell'estate del 1342 Sinadeno dovette
abbandonare in fretta e furia la città e anche i nobili cercarono la salvezza nella fuga. I loro beni
furono confiscati, e a Tessalonica si instaurò un nuovo governo, formalmente fedele ai Paleologhi,
a capo del quale furono posti, con il titolo di “arconti”, lo stesso Giovanni Apocauco e Michele
Paleologo, uomo di origini oscure. Agli arconti si affiancava poi un consiglio (boulé) il cui processo di selezione resta finora sconosciuto che poteva essere convocato su iniziativa dei due
magistrati. Inizialmente, gli zeloti riuscirono a respingere gli attacchi di Giovanni VI Cantacuzeno, ma, nel 1345, a causa delle divisioni interne fra i rivoltosi, la situazione della città divenne estremamente caotica: nella primavera dello stesso anno, infatti, Giovanni Apocauco fece uccidere
Michele Paleologo e, quando a Costantinopoli suo padre cadde vittima di un attentato, decise di
intavolare una trattativa con i seguaci di Cantacuzeno.

Il “mondo capovolto”.

A questo punto, però, la fazione più radicale prese il sopravvento: sotto la guida di Andrea Paleologo, figlio di Michele, gli zeloti eliminarono Giovanni Apocauco, e i sostenitori di quest'ultimo vennero gettati dalle mura della fortezza di Tessalonica e fatti a pezzi dalla folla lì
riunita. Poi cominciò la resa dei conti con gli aristocratici. Come scrive il dotto bizantino Demetrio
Cidone, “i nobili furono condotti per le strade come schiavi, con una corda al collo. Qui il servo
trascinava il padrone, lì lo schiavo quello che lo aveva comprato. Il contadino percuoteva il generale, il bracciante colpiva il pronoiaro”. Secondo lo storico Niceforo Gregora il regime creato dagli zeloti non sarebbe stato altro che un'ochlokrstìa cioè il governo della parte peggiore del popolo, ben lontana sia dalla democrazia, sia dal regime aristocratico; altri autori affermano che la
principale attività degli zeloti fosse quella di saccheggiare e confiscare le proprietà dei nobili, mentre Cantacuzeno li accusava apertamente di ridicolizzare, in stato di ubriachezza, i Sacramenti
cristiani, e in particolare il Battesimo. Dal punto di vista certamente non imparziale degli aristocratici bizantini, il governo zelota stravolgeva dunque le gerarchie sociali e religiose consolidate, dando vita a un vero e proprio mondo capovolto, in cui gli oppressi si prendevano la
loro rivincita.

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